Arriviamo nell’isola di Pentecoste dopo una navigazione un po’ agitata. L’ancoraggio non è dei migliori e l’unica soluzione è scendere a terra dove veniamo accolti da Sophie, una giovane donna di trent’anni.
Ha un fidanzato ma non è ancora sposata, da poco è tornata a vivere qui, nel suo villaggio natale, perché nella Capitale “era tutto più difficile”.
– Qui ho tutto gratis – mi racconta. Non devo pagare per avere frutta a verdura e ho tutto ciò di cui ho bisogno. Mio padre ha piantato la maggior parte di questi alberi (banani, cocchi) e io con lui quando ero bambina. Oggi raccolgo ciò che ho seminato.
Quante volte noi usiamo questa espressione “raccolgo ciò che ho seminato” senza però coglierne il vero significato perché lo usiamo in senso metaforico, generale e ci perdiamo nel suo significato quando tardiamo a vederne i risultati (il raccolto appunto).
Alle Vanuatu semina e raccolto sono due parole che rimandano a un’azione concreta, non solo, sono due azioni in grado di procurare la felicità in quanto fondamento della vita.
Sulla via del ritorno, Sophie mi invita a entrare nella sua capanna.
– La mia casa è semplice, non è lussuosa – mi dice scusandosi prima ancora di entrare.
A me sembra già una grande concessione, è la prima volta che vengo invitata a superare quella soglia.
Il pavimento si distingue dall’esterno fatto di terriccio per i sassi messi uno vicino all’altro. Delle pentole appese a dei chiodini sulla parete indicano la zona adibita a provviste. Ci sono dei prodotti base, come zucchero, sale, sapone, qualche crema.
Sulla parete di fronte un borsone di viaggio e due paia di scarpe, uno da ginnastica e l’altro tipo ballerine. Poco sopra delle borse di paglia appese.
– che belle! le dico con vivo apprezzamento.
– Sono regali della mia famiglia, mi dice con un fiero sorriso
Al di là di una tenda, la zona notte. Una stuoia sul pavimento, un pareo e una zanzariera.
– Quello è il mio letto, mi dice timidamente.
La ringrazio per avermi aperto le porte della sua casa e mi offro di portarle quanto abbiamo in barca (sapone, zucchero, sale), ma lei è più veloce. Ha già riempito delle sacche con bananine, cocchi e 2 pompelmi giganti.
Poi m’infila al collo, come fosse una corona di fiori, una delle borse di famiglia …
– Non puoi, provo a dire
– Mi fa piacere – mi interrompe lei. Dò quello che posso dare.
I nostri doni sembrano nulla in confronto. Abbiamo solo raccolto cose che abbiamo in barca… sapone, sale, zucchero.
Vediamo la Papayaga piegata quasi completamente in acqua, le onde si infrangono violente sulla riva e la schiuma promette imminenti agitate danze. Non c’è tempo da perdere, il mare si sta ingrossando.
Ci tuffiamo sul gommoncino e completamente bagnati ci allontaniamo dall’isola di Pentecoste con un groppo in gola pieno di riconoscenza.
– Grazie Sophie …
Le onde non mi lasciano tempo per i sentimentalismi. Molliamo gli ormeggi in tempo da record.
Eccolo qua il vero Pacifico.
Provo a voltarmi indietro ma Sophie non la vedo più. L’isola di Pentecoste rimane alla nostra destra, ci muoviamo verso nord con la speranza di un ancoraggio più riparato. Il senso di pienezza del cuore supera persino lo sballottamento delle onde. Riecheggia solo un grazie e quel filo di commozione che ci fa sentire umani.