Come spesso accade, quando si viaggia in barca a vela, ci si accorge delle previsioni meteo poco accurate, quando è troppo tardi. Saremmo dovuti partire senza vento e navigare lentamente, nella realtà siamo arrivati … sballottati. Adoro gli arrivi 🙂 Siamo quasi arrivati a Vanua Balavu, l’isola più a nord delle Lau. C’è anche un aeroporto e solo un paio di Guest Houses. Nessun altro servizio per i turisti. Per questa ragione esprime ancora quel fascino incontaminato.
La nostra destinazione è Bay of Islands, un posto incredibile che si trova su un vecchio vulcano ormai sommerso. L’acqua è profonda. Tutt’attorno silenzio. Qua e là sull’acqua grossi massi che somigliano a funghi riempiono il paesaggio come puntini su un foglio. Buttiamo l’ancora e respiriamo, finalmente, bellezza nuova.
Andremo domani al villaggio a fare il sevusevu. Ora riposiamo. Sarebbero altre 5 miglia per il villaggio e la sola idea di rimettermi in mare mi atterrisce. Superate le 100 miglia di questo mare tutto il mio organismo comincia a ribellarsi.
È domenica mattina e dobbiamo muoverci. Il sevusevu in questa zona delle Fiji è assolutamente obbligatorio, e far finta di niente vuol dire offendere i locali senza ragione. In poco tempo raggiungiamo Daliconi (si pronuncia Dalidoni), il principale villaggio di Vanua Balavu.
L’ancoraggio non è tra i migliori, la baia è ampia e scopre quel poco che basta per far entrare vento e onda. Prendiamo il nostro mazzo di kava e scendiamo a terra con la speranza di incontrare presto il Chief e fare la cerimonia del sevusevu, così da rientrare quanto prima all’ancoraggio di Bay of Islands.
Sarebbe il nostro primo sevusevu e ripasso a mente i vari errori da non commettere. Levo il cappello, infilo gli occhiali da sole nella borsa, mi copro le gambe con il pareo. Chissà come sarà … nutro grande curiosità per questo evento.
Superata una prima casa, ci sentiamo chiamare.
Il sevusevu, diciamo mostrando trionfanti il nostro mazzo di kava.
Ci invitano ad entrare nella casa, una di quelle capanne con il tetto di lamiera e l’orizzonte come finestre. Diverse persone sono già sedute a terra intorno a una tavola improvvisata. Su un lenzuolo che fa da tovaglia, notiamo cinque piatti in più, rovesciati. Per noi.
Il cibo è già lì, stavano aspettando NOI.
Sorpresi e un pò commossi, ci accovacciamo con loro per condividere il pranzo della domenica. Tra i commensali c’è anche il Reverendo.
Possiamo farlo dopo il sevusevu, ora si mangia insieme.
Pesce, kassava, patate … in queste situazioni si ringrazia veramente il cielo per il cibo che porta. Impossibile rifiutare.
Ci presentiamo a turno e condividiamo la festa.
Tra di noi ci scambiamo guardi esitanti, loro capiscono subito. Ci allungano dei cucchiai, solo per noi. Loro mangiano con le mani.
All’estremità del tavolo notiamo delle bacinelle di acqua che servono per lavarsi le mani, vicino uno strofinaccio per asciugarsi. Mentre acqua da bere non c’è, scopriamo per la prima volta che non si usa. Per dissetarsi aprono una noce di cocco, mentre per cucinare e lavare raccolgono l’acqua piovana.
Questo cercavo. Che mondo e che opportunità meravigliosa! 🙂
Sono queste le occasioni per cui ringrazi di essere in viaggio. Quando ti apri all’inaspettato e condividi un momento vero con la gente del posto. È l’occasione per imparare qualcosa in più sulla loro cultura e capire ad esempio che le donne mangeranno solo alla fine, quando tutti, uomini e ospiti, avranno finito.
È la nostra cultura, mi dice la signora seduta accanto a me.
Ha un bellissimo vestito verde, è il vestito della domenica, e un sorriso accogliente. Lei non conosce bene l’inglese quindi ci capiamo a gesti, a parole singole e sorrisi. Lascia che la fotografi e ci promette un po’ di kassava da riportare in barca al termine della nostra visita al villaggio.
Quando ci congediamo, lasciamo che le donne mangino il loro pranzo tranquille.
La stanza del Chief che raggiungiamo a piedi è vuota, con solo la tipica stuoia a terra. Ci sediamo lì consapevoli che stiamo per assistere a un rito. La cerimonia del sevusevu è molto semplice, in fijano con qualche parola in inglese alla fine.
Solo allora siamo liberi di girare, andare a visitare la scuola – oggi chiusa perché domenica – e intrattenerci con le persone del villaggio. Molti sono curiosi, ci invitano a entrare nelle loro case, ci offrono una tazza di thè o caffè, vogliono sapere da dove veniamo. Il fatto che non tutti parlino inglese non costituisce un limite, perché si percepisce l’innata curiosità dell’uomo di accorciare le distanze. A volte quel sorriso davanti a una fumante tazza di caffè racconta quanto basta per mostrare la propria riconoscenza.
Mostrandoci le fotografie dei loro figli, tutti lontani, tra Viti Levu o l’Australia ci raccontano la loro storia, come pure ci raccontano la storia di un soldato tedesco che riuscì a nascondersi in una grotta per giorni… e nessuno riuscì a trovarlo.
Dove si trova esattamente, chiedo incuriosita.
Si allontana qualche secondo e torna con una cartina di Vanua Balavu fatta a mano, difficile orientarsi… se fossi più giovane, ci dice lui, verrei con voi.
Passano ore, e dimentichiamo che volevamo tornare presto a Bay of Islands.
Dopo qualche ora al villaggio qualcuno viene a chiamarci. Il Reverendo con la sua famiglia, con i quali abbiamo condiviso il pranzo, stanno per partire per recarsi a un altro villaggio. Dovrà celebrare la messa anche lì. Sono tutti eleganti, le ragazze con il rossetto sulle labbra. Li vediamo partire con il camion aperto e ci salutiamo come fossimo grandi amici.
La sensazione è chiara. Con Vanua Balavu stiamo entrando nel cuore delle Fiji. Sono le Fiji che avevo immaginato e che mi aspettavo di trovare. Quelle che non avevo trovato alle Yasawas o alle Mamanucas, ma che sapevo avrei trovato.